Un innovativo studio multidisciplinare analizza le strategie adottate per proteggere chi vive nelle aree a rischio sismico attorno all’Etna, esplorando i processi di ricollocazione in zone sicure e il loro impatto sulle comunità locali.
[Roma, 10 gennaio 2025] – Evitare di ricostruire in zone ad alto rischio sismico e promuovere la ricollocazione selettiva delle famiglie: questa è la strategia adottata dalla Struttura Commissariale Ricostruzione Area Etnea (SCRAE). La decisione è stata al centro di una ricerca innovativa condotta dall’Università di Catania, dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dalla SCRAE, con l’obiettivo di approfondire le implicazioni socio-culturali e istituzionali di questa scelta.
Un progetto di antropologia dei disastri
Tra il 2023 e il 2024, il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania ha avviato un progetto sperimentale di antropologia dei disastri in collaborazione con l’INGV e la SCRAE. La ricerca ha analizzato i processi di ricollocazione in nove comuni del versante orientale dell’Etna colpiti dal terremoto del 26 dicembre 2018. Questo evento, con epicentro a Fleri, ha causato gravi danni nonostante la sua magnitudo moderata (5.02).
Le autorità locali hanno adottato un approccio innovativo di “delocalizzazione selettiva”, spostando solo le famiglie le cui abitazioni e attività produttive si trovavano lungo la linea di faglia sismica. Questa strategia ha segnato una svolta rispetto alle tradizionali politiche italiane di ricostruzione, che prevedono spesso la ricostruzione “dov’era e com’era”.
I risultati dello studio
La ricerca, intitolata Risk Faults – Relocation, Displacement, and Homemaking on the Slopes of Mount Etna e pubblicata su Antropologia Pubblica, ha esplorato tre aspetti fondamentali:
- Adattamento socio-culturale: le famiglie colpite hanno progressivamente riorganizzato la loro vita, sviluppando nuove percezioni sulla sicurezza e sulla sostenibilità abitativa in una zona a rischio sismico.
- Mediazione istituzionale: l’adozione di meccanismi di negoziazione ha facilitato il dialogo tra le comunità e le autorità, rendendo più accettabili le scelte di ricollocazione.
- Leva economica: incentivi finanziari ben calibrati hanno favorito l’accettazione delle decisioni istituzionali e sostenuto la transizione verso nuove abitazioni.
“La ricerca ha mostrato come l’adattamento delle comunità sia stato favorito da un’azione istituzionale sensibile e attenta,” spiega Mara Benadusi, docente di Antropologia presso l’Università di Catania.
Un modello replicabile per la gestione dei rischi naturali
“Dove ha tremato, tornerà a tremare,” ricordava nel ‘700 il naturalista Leclerc de Buffon. Questo principio ha ispirato la scelta di non ricostruire nelle aree più vulnerabili, ma di promuovere modelli di abitare resilienti e sicuri.
“La delocalizzazione selettiva rappresenta una strategia che non solo salvaguarda vite umane, ma potrebbe diventare un modello replicabile per altre aree del mondo esposte a calamità naturali ricorrenti,” aggiunge Mario Mattia, primo tecnologo dell’Osservatorio Etneo dell’INGV.
L’impatto della ricerca sulle comunità locali
Attraverso un’indagine antropologica basata su interviste, testimonianze orali e osservazione sul campo, il progetto ha evidenziato che:
- Gli incentivi economici hanno giocato un ruolo cruciale nell’accettazione delle misure.
- Le percezioni del rischio si sono evolute, incoraggiando una maggiore consapevolezza dei pericoli associati alla vita lungo la faglia sismica.
- Le dinamiche di sfollamento e reinsediamento hanno trasformato il rapporto delle famiglie con il territorio.
Il futuro della delocalizzazione dell’Etna in zone sicure
Gli studiosi coinvolti proseguiranno il lavoro per sviluppare modelli partecipativi di delocalizzazione, che tengano conto delle esigenze delle comunità e delle sfide ambientali. La strategia etnea, secondo i ricercatori, dimostra come la gestione dei rischi naturali possa essere affrontata con soluzioni innovative, sostenibili e socialmente inclusive.
Per approfondire, leggi lo studio completo su Antropologia Pubblica.
(Foto di M. Neri)